Ucraina

Il dibattito sulla guerra in Ucraina ha aperto un ampio confronto su diverse questioni. Dopo una approfondita riflessione, in considerazione della già notevole quantità di materiale disponibile in rete e non solo, il nostro collettivo editoriale ha deciso di aprire uno spazio-contenitore in cui pubblicare le opinioni di alcuni componenti del collettivo, contributi di lettori del blog e rimandi ad articoli, pubblicati su altri media, che riteniamo significativi. Di seguito, quindi, potrete trovare testi di diverso tipo. Lo spazio è da considerarsi in aggiornamento. Il collettivo, riservandosi la decisione sulla pubblicazione dei contributi proposti, è disponibile ad accogliere le opinioni dei lettori che, anche in questo caso, costituiscono un essenziale arricchimento per Prateria Ribelle.

Si può invadere l’Irak ma non l’Ucraina, Si può bombardare Gaza ma non Kiev: ovvero la doppia morale dell’Occidente

Pubblicato il 6 marzo 2022 da centrostudiudine

Il doppio standard morale dell’Occidente. Il problema l’abbiamo visto plasticamente qualche giorno fa ad una manifestazione a Udine in solidarietà con l’Ucraina. Si sono presentati dei profughi dal Tigray per portare la loro solidarietà ma soprattutto per ricordare che anche nel loro paese è in corso una guerra feroce (dimenticata dal mondo) e scatenata per di più da un premier premio Nobel per la pace (Obama docet).

In un bell’articolo tradotto su “Il Manifesto” di oggi lo storico israeliano Ilan Pappé fa il punto della situazione, traendone, purtroppo, “quattro lezioni”:

  1. “i profughi bianchi sono i benvenuto, gli altri meno”;
  2. “si può invadere l’Iraq, ma non l’Ucraina”;
  3. “in alcuni casi i neonazisti possono essere tollerati”;
  4. “abbattere un grattacielo è un crimine di guerra solo se accade in Europa”.

Ma rimandiamo alla lettura integrale dell’articolo (tradotto da Romana Rubeo)

Pacifismo e Nonviolenza

Contributo inviato da un lettore del blog.

Scrivo immaginando i molti che a sono a Roma alla marcia del 5 febbraio  o nelle sedi in cui si sono svolte le varie edizioni della Marcia della Pace e, intanto, mi domando, perché mai io stesso non vi sia presente. Almeno ad una delle tante manifestazioni che troveranno, mi auguro, moltissime adesioni.

Un po’ per via della la pigrizia dell’età è la risposta che mi sono dato. Ma non basta. Perché ho invece delle perplessità politiche che voglio manifestare. Ben inteso: credo che comunque le iniziative organizzate siano una cosa giusta e che contribuirà a prendere decisioni altrettanto giuste, ma non tutto mi torna.

Ascoltando Radio Popolare ho appreso, da uno dei leader del movimento, che le parole d’ordine della manifestazione di Roma sarebbero quelle che si prefiggono di mettere fine a tutte le guerre (non una di meno), ridurre le spese militari, proteggere le persone e tutto ciò in nome e secondo le pratiche della Nonviolenza.

Dire che tutto ciò sia ovvio, almeno a chi non deliri politicamente ed eticamente, mi pare altrettanto ovvio.

Tuttavia l’appello alla Nonviolenza, cui pensavo proprio in questi giorni, mi riporta alla mente le infinite discussioni di tanti anni fa relative alle differenze tra pacifismo e Nonviolenza.

“Noi” difendevamo la Nonviolenza e non sempre e comunque il pacifismo. Tanto per richiamare un esempio per me eloquente: Simone Weil, che fu socialista integerrima e pacifista, decise di aderire alla Guerra di Spagna e alla lotta contro il nazismo modificando la sua posizione in un modo che mi pare fu evolutivo, non contraddittorio e politicamente adeguato.

La Nonviolenza è una scelta, anche aggressiva, di lotta politica che implica il rispetto di colui che si presenta nelle vesti del “nemico”, il quale viene riconosciuto comunque come un essere umano e non un alieno. D’accordo. Questo principio mi pare ancora oggi valido e sottoscrivibile.

La Nonviolenza non è solo scelta etica, ma politica, forse l’unico modo (in linea di principio) di tenere legate politica ed etica. Scelta che assume responsabilmente su di sé il conflitto a cui non dice solo “no” perché non accetta l’ingiustizia, anzi la dichiara, prende posizione, interviene (a suo modo) nello scontro. E’ pronta ad ascoltare l’altra parte, non rompe i canali di comunicazione (anzi li suscita) ed è pronta al compromesso.

Scusate il pistolotto, ma serviva soprattutto a me per richiamare alla mente certi punti fermi.

Ecco però anche le differenze: la Non violenza non si limita semplicemente a dire “io non prenderò mai le armi”. Infatti se il sopruso e l’ingiustizia fossero evidenti e ormai inarginabili essa comunque prenderebbe parte al conflitto. Certo, non un secondo prima o un secondo dopo l’inizio o la fine dello scontro, quindi né con anticipo né con vendette (il Trattato di Versailles lo fu), ma assumendosi la responsabilità politica e storica della situazione.

Vengo adesso all’Ucraina e alla manifestazione. Che l’Europa, l’Occidente, la NATO abbiano avuto responsabilità in questi ultimo trenta anni non v’è dubbio. Anche quelle che hanno permesso alla Russia di tornare ad essere un’autocrazia in mano a un pugno di ex KGB divenuti oligarchi che strozzano un paese.

L’Europa e le sue democrazie (imperfettissime) hanno cioè perso, a suo tempo, l’occasione di coinvolgere l’ex Unione Sovietica in un sistema di partecipazione, di riconoscimento dei diritti individuali e collettivi, di più equa spartizione delle risorse, insomma di spingerla verso una storia (non dico un “destino”) che le avrebbe permesso di superare l’angoscia che la soffoca da sempre.

Di questa angoscia la letteratura russa ne è il documento vivente. Dopo i grandi scrittori dell’800 ne parla anche Vasilij Grossman quando dice che la storia russa ebbe il pieno incontro con la libertà, la sua occasione durante la rivoluzione d’ottobre. Lì, in quel momento, si crearono le condizioni per poter riconoscere l’ebbrezza della libertà, assecondarla, darle forza di struttura istituzionale. Fino alla morte di Lenin. Ebbene, pur trascurando quanto di idealistico ci sia ancora in questa ricostruzione comunque “sovietica” della storia russa, io la condivido. Mi pare che il punto messo in evidenza da Grossman sia preciso e pertinente. In altre parole, la Russia non è “altra cosa” dall’Europa pur con le sue caratteristiche particolari, uniche. Non è “altro” come invece potrebbe esserlo la Cina, ad esempio, di cui sostanzialmente ci sfugge ancora l’impianto concettuale, pratico e di significati. La Russia appartiene pienamente al “movimento” che l’Europa e l’occidente rappresentano ed è convenienza dell’Europa e dell’occidente evitare che si isoli.

Negli anni immediatamente successivi alla fine dell’Unione Sovietica, in piena crisi, la Russia si avvicinò addirittura alla NATO. Ci furono colloqui bilaterali Russia-NATO per individuare un sistema integrato di difesa. Non se ne fece più niente. Eltsin tramontò e si aprì una fase di spartizione selvaggia di un continente e delle sue risorse con l’arrivo di Putin e della sua banda. L’economia della Russia rimane primitiva: si basa prevalentemente sull’esportazione di risorse della terra e cresce solo nei “consumi” militari.

Ora, al netto delle nostre responsabilità, invade (non la Russia: Putin e la sua cricca economico-militare) l’Ucraina e minaccia altre nazioni e popoli. Dovremmo accettare tutto questo in nome della sua “alterità” e del suo desiderio di esserlo? Questa è propaganda capitalista. Di quel capitalismo primitivo che è la Russia di oggi.

Nel campo pacifista si sostiene che la NATO si è allargata minacciando i legittimi confini russi. Legittimi in che senso? Possiamo considerare sacri confini della Russia i Paesi baltici, l’Ucraina, la Moldova, la Georgia, l’Armenia, magari anche la Romania, L’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia secondo la spartizione di Yalta? Se tutto ciò avvenne a seguito della follia della seconda guerra mondiale non fu certo secondo la loro “storia” secolare perché pur entro differenti punti di gravitazione tutti paesi nominati sono stati “Europa” e non “Russia”. Cosa faremo dunque, accetteremo una nuova Yalta? In nome della pace?

La Russia attuale ha invaso l’Ucraina: chi ha il coraggio di dire agli ucraini: “arrendetevi”? Loro per altro non lo vogliono. Evitare di sostenerli anche militarmente equivarrebbe ad un invito alla resa. E’ questo il nostro pacifismo? Antistorico, inerme, anche un po’ vigliacco? “Arrendetevi”: voi, si capisce, e prima che ci sia una nuova Chernobyl che ci impedirebbe di mangiare verdura nei prossimi anni (visto che, in più, siamo anche salutisti, biologici, ecologisti).

Il pacifismo deve prendersi ora responsabilità, bandire il proprio antiamericanismo aprioristico, superare le reazioni pavloviane che scattano sempre nella nostra generazione quando si parla di NATO e Russia (che è pur sempre la patria dei nostri sogni di gioventù). Deve diventare, il pacifismo, Nonviolenza e in suo nome proseguire con le sanzioni e con l’aiuto ai profughi e anche ai combattenti fino a che essi vorranno esserlo. Certo, intanto dichiarare la disponibilità ai negoziati, ma non in una posizione di inferiorità né etica né militare (se possibile).

Addirittura alcuni commentatori di istituti di geopolitica hanno sostenuto che “ormai la guerra è persa” e che quindi a nulla varrebbe proseguire nel sostenerla aiutando i combattenti ucraini, anzi sarebbe come gettare benzina sul fuoco (tesi addirittura di Sergio Romano!): che fine avremmo fatto se avessimo utilizzato questo principio dopo le ben più veloci e “definitive” conquiste naziste dell’Europa e della stessa Unione Sovietica? Ci ritroveremmo probabilmente ancora con i nazisti tra i piedi e magari anch’io lo sarei (facciamoci del male…).

La Seconda Guerra mondiale fu “anche” una guerra di liberazione, quindi pur riconoscendo gli interessi dei capitalisti delle armi e del capitalismo in generale ci restituì quella condizione nella quale oggi possiamo andare in piazza a protestare contro la guerra. Gli altri sistemi, questi sì ormai “altri”, furono (e in larga parte lo sono dove ancora presenti) “organicismi” populisti, mitologici e soterici: tutte cose che abbiamo compreso di non volere perché falsi e arcaici.

Non si tratta solo di dire: “condanniamo l’invasione, però…”, perché il “però” rende inutile la condanna. Si tratta di riaffermare i principi di libertà, autonomia, democrazia ponendo un “alt”, dei paletti, alla prepotenza dell’angoscia e suscitando nella opinione pubblica russa quelle risorse di identità e di futuro che hanno profondamente dentro loro stessi. Suscitare, cioè, la loro angoscia di libertà e sostenerla in maniera responsabile.

Forse qualcosa di così difficile anche per l’Europa che rischieremo di rimanere a lungo in un pantano.

Ben vengano comunque le manifestazioni “critiche” della politica  e delle democrazie  europee. Ma non facciamo la fine di Tafazzi. La nostra capacità di autocritica quando minaccia le basi della nostra stessa identità diventa patologia, nevrosi, ossessione.

Non è il caso.

In ogni caso, buona manifestazione a tutti.

Gianfranco

La “vocazione imperiale” della Russia

Secondo contributo da parte dei lettori.

Preso da sete di conoscenza e guidato dall’irrinunciabile principio illuministico che fa risiedere nel sapere e nella conoscenza la vera differenza tra brutalità della vita e saggezza, quindi anche la soluzione di tutti i problemi, ieri sono andato in edicola a comprare la pubblicazione di Limes dedicata alla guerra tra Ucraina e Russia.

Quindici euro, cavolo!, mi sono detto. Poi però ho notato che tra i nomi illustri di esperti storici, economisti, sociologici, politologi, esperti di tattiche militare, prelati progressisti,  spiccava il nome del Presidente del Gruppo Editoriale GEDI, John Elkann. Il Gruppo credo sia l’editore di Limes e quindi Elkann ne è il “padrone” (per dirla come una volta). Siamo quindi in terra sabauda ed entro la struttura mentale e di interessi dell’aristocrazia piemontese delocalizzata in USA.

L’articolo non perde tempo e invita a far riferimento alla storia recente e meno recente della Russia per poterne comprendere le aspirazioni e le mosse. “Il silenzio di Puskin”, titola.

Dice (riassumo per come ho capito): La Russia è un’entità storico politica imperiale. Sarebbe stato possibile farla rientrare nel gioco europeo tra il 1991 e il 2007 se avessimo intuito e accettato, noi UE e USA, che la Russia è impero o non è.

Questo l’ho sentito sostenere anche da Cacciari in TV come un invito a prendere atto di una realtà “evidente” (lui usa sempre questo aggettivo per sottolineare il suo pensiero a differenza di quello dei sub-umani) e al realismo senza il quale non si potrà far la pace.

Quindi il punto di partenza è quello rappresentato dalla vocazione imperiale della Russia. Trascurare ciò impedirebbe di comprendere e di agire con efficacia.

Qui già mi sorprendo, a mia volta, nell’uso di un termine che mi è uscito di getto, cioè vocazione. Per carità ce ne potrebbero essere molti altri per dire la stessa cosa, ma l’inconscio è inconscio, parla sempre e forse non è un caso che sia emersa questa parola che poi riprenderò per meglio illustrare il mio piccolo pensiero.

La Russia, volenti o nolenti, vuole essere considerata e trattata da grande potenza anche se ad occhi altrui non lo è.

Ci sarebbe una logica geopolitica di questa grande potenza e tale per cui anche se al Cremlino sedessero imperatori comunisti o reazionari, moderati o aggressivi, nulla cambierebbe.

Ora, mi domando su cosa si basi tale punto di partenza che mi pare, in termini brevi e di lunga visione, letale e destinato all’autolesionismo impotente.

Il principio che viene affermato definirebbe una natura immodificabile e storico-politica della Russia che è tutta da dimostrare. Si, è vero, la storia della Russia è stata imperiale anche sotto il comunismo sovietico. Tuttavia alcune differenze ci sono state. Per farla breve, almeno quella che attraverso Lenin ha riconosciuto un’identità “nazionale” all’Ucraina, un’identità di Repubblica fittizia quanto volete, ma non semplicemente di identificazione con la Russia. Lenin, che la storia la conosceva, sapeva anche che da secoli il baricentro della Russia si era spostato su Pietroburgo e Mosca così che l’Ucraina era ormai divenuta un’altra cosa. Da tenere vicina, prossima, sottomessa, ma altra cosa.

Proprio questo Putin rimprovera a Lenin: aver separato i destini di un’entità che è invece unica, che deve rimanerlo e che egli intende ripristinare perché proprio la modificazione sarebbe costruzione antistorica, di origine occidentale e segnata dal peccato originale dell’atlantismo filoamericano.

A me pare che le cose siano invece differenti e che tale “narrazione” sia propaganda, così come insufficiente si rivela l’appello al realismo dei cosiddetti pacifisti.

Limes stesso lo ricorda: esempi di vocazione imperiale nella storia recente, in Europa e altrove, ce ne sono stati, basterebbe pensare alla Germania e al Giappone. Usando lo stesso criterio di assimilazione potremmo anche sostenere che Hitler fu la versione laica dell’imperialismo guglielmino e prussiano. E addirittura precedente, ben prima del fatidico anno Mille che avrebbe segnato la nascita della storia russa. Ricordate i Sudeti: furono ciò che i russi-russofoni del Donbass sono oggi.

Cosa quindi potremmo riconoscere ancora se rimanessimo attaccati ai vecchi criteri e alle vecchie letture della storia? Che La Germania avrebbe motivi per rivendicare mezza Polonia o gli stati baltici che furono teutonici? Che Praga fu Asburgo? Che Il Giappone ha ancora una struttura istituzionale imperiale? Paradossalmente sarebbe una  riedizione di ciò che fece il fascismo appellandosi al passato romano.

Invece, cosa è accaduto? Che Germania e Giappone sono diventati democrazie. Certo, al prezzo di enormi sofferenze e questo qualcosa vorrà pur dire, ma democrazie.

Non esiste una natura-cultura delle nazioni immodificabile ed eterna, corrispondente a un ruolo storico che il destino avrebbe loro assegnato e questo per varie ragioni: anzitutto perché il passato stesso a cui ci si appella fu già esso stesso un passato meticciato e mai “puro”. Popolazioni differenti costituirono la Rus’ e quindi “decisero” di esserlo facendo diventare affinità le differenze (che esistettero e che riaffiorano proprio in questi momenti. E’ lo stesso processo che soggiace alla bibbia nella sua invenzione/costruzione di Israele e ai vangeli per la “fede”).

Ciò che chiamiamo “puro” è una mitizzazione e un’astrazione al fine di costruire un’identità.

L’identità, però, non è mai immobile nemmeno nell’individuo: nasce nelle relazioni, nelle scelte (anche inconsapevoli: cosa ci ricordiamo della nostra infanzia?), nei progetti. Costantemente si modifica e non appartiene al novero delle realtà date una volta per tutte. Nemmeno per la Russia, quindi.

Comprendo l’origine dell’intenzione delle persone e degli agglomerati umani così come la sua necessità, cioè quella di percorrere in modo sicuro e condiviso un tratto comune di strada, di occupare con sicurezza spazi immensi e tempi che farebbero rabbrividire al solo pensiero di doverli affrontate (è l’angoscia della vita). Tuttavia tale istanza va dichiarata e tenuta presente. L’angoscia gestita. Diversamente si trasforma in religione.

E qui arrivo al secondo punto della mia considerazione: cosa farà superare questo momento. Avrete notato nel mio linguaggio la presenza di parole il cui sapore e provenienza è riconoscibilissimo. Nazione, destino, vocazione, natura, impero, Rus’, Patria, Storia, Patriarca di Mosca “terza Roma” (come se non ce ne fosse bastata una), identità: è il linguaggio della religione e della ontoteologia.

Per questo tale linguaggio ci attrae e per questo vi invito a prenderne le distanze. Qui infatti ci sta tutta la violenza e tutta morte che vediamo nelle strade e nei bombardamenti.

Cosa ci permetterà di andare oltre? Due cose, a mio giudizio. Sotto il profilo politico l’incremento della democrazia e l’allargamento dell’UE (e poi, eventualmente della NATO). L’allargamento, ciò, del riconoscimento reciproco entro una nuova (perché democratica) compagine.

Sotto altri profili la trasformazione avverrà attraverso la piena desacralizzazione, demitizzazione, secolarizzazione dell’esperienza che porterà finalmente alla morte di “dio” (cioè di tutti i miti che ho richiamato).

E benché non ne sia contento ciò potrà accadere proprio attraverso quanto ho combattuto fino a ieri: globalizzazione e mercato. Si, proprio il capitalismo, riformabilissimo, per carità, ci porterà fuori dalle nazioni in guerra. Lo potrà fare attraverso politiche di espansione non miope che, magari rinunciando all’immediato guadagno, potranno portare a guadagni più consistenti in futuro. Il capitalismo attuale è ancora primitivo in Russia e anche in occidente se ancora pensa di poter inventare guerre per poter sfruttare le economie di guerra e le ricostruzioni. Io penso a un capitalismo ultrateconologico e che sia in  grado di uscire dai suoi stessi miti (so che per Marx e Lenin sarebbe impossibile).

Forse sogno. Un sogno destinato a trasformarsi in incubo. Ma cosa esiste di più terribilmente capace di generare incubi se non la guerra attuale?

Gianfranco

Guerre e giustizia sociale

Provo a rispondere alle sollecitazioni, forse in qualche caso anche “provocazioni”, di Gianfranco

Prima di tutto, ringraziandolo delle riflessioni, non banali né superficiali, e poi provando a entrare nel merito, con la necessaria premessa che, in questo momento, prevale in me il desiderio di ascoltare e riflettere su quello di esprimere posizioni, che sento di non avere ancora maturato a fondo. Temo di trovarmi nella situazione, come fece dire Altan a un suo personaggio, “di avere delle idee che non condivido”.

Cerco di andare con una parvenza di ordine.

Mi sono piaciute molto le considerazioni sulla Germania e il Giappone e il parallelismo “imperiale” con la Russia. Se nulla è immutabile, perché lo deve essere quella dimensione? Eppure, la Russia e la Cina, come da un paio di secoli gli USA, sono potenze imperiali: lo dice l’ampiezza del territorio e il numero degli abitanti. È altrettanto vero che non lo è l’India e che ogni regola ha la sua o le sue eccezioni. Come è vero che la storia cambia, ma non di rado in modo doloroso per le popolazioni. Oggi, con la minaccia dell’olocausto nucleare, va fatto tutto con molta cautela. Ad ogni modo, il principio che esponi è, a mio avviso, concettualmente solido.

Corriamo il rischio, sempre, di fare cominciare la Storia dove ci conviene o dove ci è più facile. Dall’oggi o da un ieri situato in un punto che riteniamo utile per argomentare in modo convincente. Difficile uscire da questo gioco mentale, anche per chi vorrebbe essere solo lucido nell’analisi dei fatti. Non mi considero fuori da questo schema, anche se provo a superarlo.

Quindi, ci opponiamo all’invasione dell’Ucraina: non fosse che per le sofferenze inflitte alla popolazione civile, questo mi sembra corretto. Pur con tutte le giustificazioni che si possono trovare per la Russia (a volerlo fare…), bombardare le città è un atto che la nostra coscienza condanna.

Tra l’altro, la Russia è un Paese governato da un regime autocratico, sostenuto nel tempo da Berlusconi, da Salvini (e da Savoini), dalle destre più radicali ed estreme, con elementi portatori di ideologie vicine al fondamentalismo religioso che prosperano e vanno in giro per l’Europa a fare proselitismo. Per quanto mi riguarda, fatico a provare simpatia per quel governo.

Ma la Storia non comincia a febbraio 2022. La mia posizione di antimilitarista (non pacifista a oltranza: ho sostenuto e sostengo la resistenza curda, di cui condivido gli ideali, come celebro la resistenza dei partigiani italiani ed europei) mi ha portato nel tempo a marciare più volte contro le avventure USA, ma molti usano due pesi e due misure e se qualcuno lo fa notare non è un peccato.

Quando Israele (a cui riconosco il sacrosanto diritto di esistere e di difendersi dall’integralismo islamico) bombarda città in Palestina causando morti civili a centinaia quando non a migliaia, nessuno parla di sanzioni. Eppure, c’è una risoluzione dell’ONU che intima a Israele di lasciare i territori occupati nel 1967, mentre ne vengono sistematicamente occupati altri.

Quando gli USA attaccarono l’Iraq nel 2003, generando la nascita dell’ISIS, l’ONU non approvò l’attacco, per il rifiuto non solo della Russia, ma anche della Francia. I discorsi dell’ambasciatore francese all’ONU De Villepin sono ormai storici. A lui, Colin Powell disse: “L’atteggiamento della Francia non resterà impunito. Finita la guerra all’Iraq, Parigi pagherà le conseguenze delle sue scelte”. Queste parole contro un Paese democratico (la culla della democrazia liberale moderna), come sono da giudicare? Gli USA fecero la guerra, distrussero un Paese, che è ancora un ginepraio e, sì, allontanarono un dittatore, loro che di dittatori messi al potere (da Pinochet a Suharto) ne sanno parecchio. Raccontando panzane all’ONU e al mondo sulle “armi di distruzione di massa”.

La Nato nel 1999 bombardò la Serbia (compresa la capitale Belgrado e perfino l’ambasciata cinese). Con che motivazioni? Per proteggere i civili del Kosovo dalla violenza dei Serbi. Sostituiamo Serbia con Ucraina e Kosovo con Donbass. La Russia bombarda l’Ucraina (comprese la città) per proteggere i civili dal Donbass dalla violenza degli Ucraini. Naturalmente oggi sono nazisti gli Ucraini per Mosca e prima erano nazisti i Serbi per la Nato. Manca un po’ di fantasia, anche nel descrivere il nemico, a queste potenze.

Quando comincia la Storia? Oggi sanzioni. Bene. Prima no. Perché? Chi ha manifestato nel 1999 e nel 2003, secondo me è coerente, se manifesta anche oggi. Chi nel 1999 e nel 2003 è stato zitto, lo e molto meno.

C’è poi tutta la questione di Piazza Maidan. In molti sono convinti (e hanno testimonianze che lo confermano) che si sia trattato di un colpo di stato per deporre un presidente democraticamente eletto, con elementi neonazisti al centro di questa presunta rivoluzione portata avanti da una piccolissima minoranza. Oggi, il criminale nazista Stepan Bandera è ricordato con una festa nazionale in Ucraina. Da lì a dire che l’Ucraina oggi sia nazista ce ne corre. Eviterei le semplificazioni, ma un problema c’è stato: sembra piuttosto evidente a chi vuole comprendere che non è così facile stabilire la riga che separa buoni e cattivi.

Ho una viscerale avversione per le interpretazioni complottistiche della realtà, ma non si può nemmeno cadere nell’accettazione acritica di tutto ciò che ci viene descritto. Voglio dire, che gli USA ne abbiano fatte di cotte e di crude in giro per il mondo è indiscutibile. Davvero, in tutto ciò che succede in quell’area, dal 2014, il loro ruolo è solo quello di spettatori disinteressati? La domanda, il desiderio di sapere e capire sono doverosi, più di quanto non siano legittimi.

E allora? Con assoluta umiltà, dico che, prima di tutto, secondo me, si deve cercare la pace. Quindi, è forse vero che se l’Ucraina fosse entrata nella NATO dieci anni fa, oggi non sarebbe stata invasa (come non sono state invase le Repubbliche Baltiche, che ai Russi stanno proprio sull’anima), ma tant’è. Oggi l’Ucraina non è nella NATO e se fosse neutrale farebbe un gran piacere a sé stessa e a tutti quanti. Zelensky sembra cominciare a immaginare un punto d’accordo su questo aspetto. Bene. Anzi, benissimo.

Partendo dal presupposto che Putin voglia trattare davvero, possiamo dire che la Russia vuole la Crimea. Ce l’ha già e la popolazione della Crimea sembra voler stare con i Russi, non con gli Ucraini. Si tratta di accettare uno stato di fatto e rispettare la volontà della popolazione, per quanto la modalità di annessione non rispetti i crismi del diritto internazionale (non sarebbe certo la prima né, temo, l’ultima volta…). Mi sembra che si possa dire lo stesso della popolazione di Donetsk e Luhansk. Come il Kosovo voleva essere indipendente. Come forse lo volevano i catalani (e Puidgemont ha ancora grossi problemi con la giustizia), che non hanno sparato a nessuno, ma che non possono nemmeno fare un referendum. Un referendum, strumento democratico, non un attacco missilistico. Non sarebbe ora di dire che un territorio, se vuole stare per i fatti suoi, deve essere libero di deciderlo? Come hanno fatto Cechi e Slovacchi (giù il cappello), senza guerre, senza spargimenti di sangue, in modo civile? Questo germe malefico del nazionalismo lo vogliamo estirpare svilendolo quanto più possibile? Diluendolo in un’Europa delle nazionalità, ma soprattutto della solidarietà e dello Stato sociale, per esempio.

Non trovo facile prendere una posizione definitiva e univoca sulla questione delle armi da inviare o meno in Ucraina. In linea di principio, sostenere un popolo aggredito è giusto o almeno comprensibile. Come è stato fatto notare, i partigiani italiani furono armati dagli Alleati, per esempio. Oppure, la popolazione curda del Rojava, per difendersi dagli attacchi dell’esercito turco (in territorio siriano, tra l’altro, anche se non risultano sanzioni nei confronti di Erdogan…), ha bisogno di armi e dei civili italiani sono perfino andati a combattere e a morire, come Lorenzo Orsetti, per difenderne la causa.

Ma siamo sicuri di dove vanno a finire queste armi? All’esercito ucraino, ai civili, alle bande nazionaliste? Chi ne ha controllo? In Colombia, per frenare i gruppi armati delle FARC e dell’ERP, il governo ha finanziato per decenni i cosiddetti “paramilitari”, che si sono resi protagonisti non solo dell’uccisione di migliaia di combattenti (veri o presunti), ma di stragi di contadini, sindacalisti, rappresentanti delle comunità locali e della morte di quelli che vengono definiti “falsi positivi”, cioè persone che sono state uccise perché considerate militanti delle formazioni armate e poi invece non lo erano (però, ormai…). Vogliamo rischiare di fare la stessa cosa in Ucraina? Non mi scandalizzo per l’invio di armi a un Paese aggredito, ma siamo ben sicuri di cosa stiamo facendo?

Mi viene da dire che bisogna sostenere la trattativa, a qualunque costo, raggiungere una tregua e poi, forse (un forse grande come una casa) interporre i famosi “caschi blu”, in realtà soldati di Paesi poveri che si arruolano per guadagnare qualche cosa, ma è quello che c’è oggi a disposizione, fino a quando vivremo in una situazione internazionale come questa, oppure trovare un’intesa che riporti la popolazione a vivere stabilmente in pace. Troppi soffiano sul fuoco e abbiamo ragioni da vendere per pensare che non siano tutti e del tutto in buona fede.

La parte finale del tuo secondo intervento la comprendo meno. Non ho fiducia nel capitalismo, sistema in cui tutto e tutti e tutte vengono mercificati. Non esistono valori, solo denaro. Fintanto che ci toccherà vivere in un sistema capitalista, credo che ci si debba battere perché sia temperato da una società dove il potere sia il più possibile diffuso e in cui la disuguaglianza sia drasticamente mitigata dallo stato sociale. Per fare questo bisogna costruire anche nell’oggi delle alternative praticabili e intanto battersi per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle fasce sociali più in difficoltà, così come pretendere il rispetto dei diritti sociali, primo fra tutti quello alla salute, messo pesantemente in discussione in primo luogo da chi lo vuole privatizzare, come fa la Regione Lombardia.

Infine, solo per capire chi ci governa e di quale livello di propaganda e disinformazione siamo vittime, cito l’intervento di Ursula Von Der Leyen, in cui diceva che finalmente gli oligarchi russi non potranno più avere macchinoni, yacht e case di lusso in Europa. Sono trasalito, a sentire simili affermazioni. Non ho trovato (ma forse non ho cercato abbastanza) reazioni di stupore di fronte a queste corbellerie. A parte che, fino all’altro ieri, erano i benvenuti in Europa e negli USA, ma qualcuno mi può spiegare perché dovrebbero essere accettabili invece i macchinoni, le ville, gli yacht, i capitali nei paradisi fiscali (tipo le britanniche Cayman e lo statunitense Delaware) dei nostri oligarchi? Perché dovremmo continuare a sopportare l’inaccettabile livello di disuguaglianza delle nostre società, in costante crescita, tra l’altro?

Senza pretese, per il momento io la vedo così. Ma chissà quanta altra acqua passerà sotto i ponti. E quindi forse ci obbligherà a rivedere le nostre opinioni.

                                 Luca

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