Recensione a “Privatocrazia” di Chiara Cordelli

Stiamo registrando un vertiginoso aumento delle privatizzazioni in tutti i settori della società. Se l’impatto di questa scelta, diretta conseguenza dell’affermazione del pensiero neoliberista, è pesante per diverse ragioni (si pensi agli extraprofitti delle società del settore energetico, oggi privatizzate e un tempo in generale pubbliche, quindi soggette a un controllo diretto da parte dello Stato), le conseguenze maggiori le possiamo vedere nei settori in cui è più importante garantire equità di accesso e di prestazioni: ci riferiamo alla sanità e all’istruzione.

Da sempre Prateria Ribelle è impegnata nella denuncia della progressiva occupazione di queste due aree da parte dei privati, in tutti i Paesi occidentali. Il progetto è chiaro ed esplicito da oltre trent’anni: eliminare il monopolio statale da due settori potenzialmente in grado di garantire immensi profitti e permettere l’arricchimento alle aziende private, contando sul fatto che ciascuno di noi è disposto a spendere denaro per proteggere la salute propria e dei propri cari e che le famiglie sono pronte a investire parte del proprio patrimonio per assicurare un’educazione di qualità ai propri figli.

Abbiamo assistito – e continuiamo ad assistere – a una campagna ideologica tesa a screditare tutto ciò che non è privato e a tagli draconiani dei fondi per le scuole statali e per la sanità pubblica, con conseguenti:

– riduzioni del personale;

– peggioramento della qualità dei servizi;

– chiusura di presidi sanitari pubblici;

– sostanziale blocco dei salari per i dipendenti dello Stato, delle Regioni e dei Comuni.

Contemporaneamente, a fronte di un settore pubblico messo in ginocchio, si sostiene la superiorità dell’intervento dei privati e la necessita vitale di una presunta libertà di scelta che le strutture pubbliche non garantirebbero.

Vengono elargiti fondi a pioggia alle aziende private che finiscono per gestire enormi quantità di soldi che arrivano, è bene chiarirlo, in parte dalle tasche dei cittadini (che non hanno più a diposizione servizi pubblici gratuiti oppure soggetti al solo pagamento del ticket) e in parte, ancora più sostanziosa, da finanziamenti statali.

In questo caso, stranamente, gli aiuti pubblici – demonizzati quando servono a difendere il salario, la sopravvivenza dei cittadini o il loro diritto alla pensione – sono graditi e il tanto decantato rischio di impresa si trasforma nella ricezione garantita di fondi, che sono a carico della fiscalità generale.

In pratica, invece di avere servizi pubblici gratuiti, paghiamo le tasse perché i nostri soldi vadano a ingrassare dei privati che, oltre tutto, spesso ci chiedono pure di pagare ulteriormente per le stesse prestazioni che avremmo il diritto di ricevere gratuitamente. Il piano perfetto.

Il libro che vogliamo recensire (Privatocrazia, di Chiara Cordelli, Mondadori, 2022, 140 pagg., 18 euro) non si occupa solamente di questi aspetti dell’ascesa del settore privato nella nostra società e nei servizi. Affronta la questione da un punto di vista, se possiamo dire così, filosofico e politologico, chiarendo come la progressiva privatizzazione di funzioni basilari della nostra vita sociale costituisca un attacco alla democrazia e al controllo pubblico su scelte che devono restare soggette alla valutazione della politica e della cittadinanza

Il rischio, se lasceremo che questo continui ad accadere, è di vederci privati di decisioni di importanza fondamentale per la nostra vita privata e collettiva, lasciate nelle mani di aziende che hanno come principale, quando non unica, ragione di essere il profitto.

La privatocrazia

L’autrice del testo è professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Chicago. Ha ricevuto nel 2021 il premio per il miglior libro di filosofia politica dell’European Consortium for Political Research per il suo testo The Privatized State.

Con il termine privatocrazia si riferisce alla situazione in cui il privato diventa co-responsabile e co-amministratore della cosa pubblica (pag. 3).

Cordelli vede tre conseguenze di questo processo:

  1. La privatizzazione corrompe il controllo direttivo: perdendo la capacità di svolgere direttamente certe funzioni o di farlo in modo efficiente, lo Stato non avrà neanche una capacità sufficiente per coordinare, supervisionare e regolare coloro a cui queste funzioni sono delegate. (…) Ne consegue che il governo diventa sempre più dipendente dai privati e questi ultimi sempre più necessari, invece che meramente ausiliari (pagg. 21-24).
  2. La privatizzazione inficia la vigilanza civica: gli abusi di potere sono molto più difficili da smascherare, le aziende private controllano le informazioni sui costi e su altri dati vitali. (…) Più lunga e confusa è la catena delle esternalizzazioni, più difficile è scoprire cosa stia succedendo nel processo di amministrazione pubblica. (…) Si crea pertanto quello che Suzanne Mettler definisce lo Stato Sommerso, le cui politiche rimangono in gran parte invisibili. (…) Inoltre, quando le persone non vedono le istituzioni pubbliche come le principali fornitrici dei benefici che ricevono, hanno meno ragioni per interessarsi e sviluppare un attaccamento a esse e, pertanto, diminuisce la disposizione dei cittadini a vigilare l’operato del governo (pagg. 24-26).
  3. L’esternalizzazione di funzioni pubbliche mina il principio di eguaglianza di opportunità di influenza politica: la crescente dipendenza dei governi dagli attori privati rafforza il potere di questi ultimi di fare pressione sui primi e di conseguenza indebolisce la capacità dei governi stessi di resistere alle richieste degli attori privati. Questo naturalmente genera corruzione e clientelismo (pagg. 26-28).

L’autrice mette in evidenza il concetto di discrezionalità, cioè il potere di autonomia decisionale esercitato da chiunque assuma la responsabilità di gestire, programmare ed erogare servizi pubblici. (…) In alcuni casi tale discrezionalità ammonta a un vero e proprio esercizio di potere politico, (…) che può essere legittimo solamente se soddisfa alcune condizioni di legittimità democratica, inclusa quella di rappresentanza pubblica (pagg. 43-46).

Scrive Cordelli: Abbiamo ragione di concepire la privatizzazione come un nemico interno della democrazia stessa. La privatizzazione di funzioni pubbliche essenziali non è semplicemente nociva, bensì illegittima. Essa consiste in un processo attraverso il quale il governo decide di abdicare a qualcosa a cui non ha diritto ad abdicare – le condizioni di esercizio del diritto collettivo all’autogoverno (pagg. 28-30).

Il settore sanitario

Il primo capitolo del libro è dedicato alla privatizzazione della sanità. Non tanto per denunciare l’arricchimento dei gruppi privati approfittando degli spazi loro concessi dalla parcellizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nelle diverse regioni, bensì per chiarire le implicazioni derivanti dalla privatizzazione di un settore-chiave della nostra vita.

Sul tema specifico dei danni causati dalla privatizzazione del SSR lombardo segnaliamo il testo di Maria Elisa Sartor La privatizzazione della sanità lombarda dal 1995 al covid-19, recensito da Prateria Ribelle.

Scrive Cordelli (pagg. 16-17): Gli stessi incentivi che dovevano rendere i privati organi di efficienza e qualità si sono rivelati incentivi a non fornire servizi sanitari essenziali, in quanto meno redditizi di prestazioni non essenziali. (…) Il processo di privatizzazione ha progressivamente indebolito i settori meno redditizi – programmi di prevenzione, risposte emergenziali e terapie intensive inclusi – come abbiamo potuto drammaticamente verificare durante la pandemia.

(…) È ingiusto che gli attori privati facciano pagare cifre significative per servizi urgenti, in assenza di opzioni pubbliche alternative e facilmente accessibili – opzioni che mancano in parte a conseguenza della privatizzazione stessa.

Un’argomentazione spesso utilizzata dai sostenitori – alcuni forse anche sinceramente a malincuore – della privatizzazione della sanità è che in questo modo lo Stato risparmierebbe. Se i soldi non ci sono, privatizzare potrebbe essere l’unica opzione possibile. Ma la privatizzazione raramente significa risparmio. (…) Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, uno dei sistemi di governance più privatizzati che esistano. Negli stessi anni in cui sono aumentate le privatizzazioni di funzioni essenziali, la spesa pubblica è notevolmente cresciuta, invece di diminuire. (…) Empiricamente, privatizzare non può essere usato come sinonimo di risparmio (pagg. 119-120).

L’istruzione

Già avanzato in altri Paesi, il processo di privatizzazione dell’istruzione prosegue anche in Italia. In alcune grandi città, il settore privato si appresta a raggiungere e a superare il tetto del 25% di iscrizioni nelle scuole primarie e nelle secondarie di primo grado (quelle che chiamavamo elementari e medie).

Lo Stato usa il privato per ovviare a un numero insufficiente di scuole pubbliche o per garantire un’erogazione di servizi educativi più consona alle preferenze particolari dei genitori e degli studenti (pag. 77). Inoltre, viene autorizzato il ricorso allo homeschooling, situazione in cui ai genitori viene lasciata la libertà di istruire i propri figli al di fuori del sistema scolastico e all’interno della sfera privata della famiglia (pag. 78).

Se pensiamo che si tratti in entrambi i casi di numeri residuali, si tenga presente che ci sono in Italia 12.547 scuole private paritarie, con una copertura di circa 880.000 alunni su 8,5 milioni di studenti e che gli studenti che studiano a casa sono passati in soli tre anni (dal 2018 al 2021) da 5.000 a oltre 15.000 (pagg. 78-79).

Due sono i tipi di ineguaglianza messi in pericolo dalla privatizzazione dell’insegnamento: 1) quella di pari opportunità educative e quindi lavorative; 2) quella di tipo relazionale.

Quanto alla prima, scrive Cordelli: La privatizzazione dell’istruzione rischia di riprodurre un ordinamento di tipo feudale nei casi in cui essa conduce a una distribuzione delle opportunità educative e lavorative fortemente influenzata dalla classe sociale di nascita. Ciò avviene quando le scuole private forniscono un’istruzione qualitativamente migliore di quelle pubbliche, senza però essere universalmente accessibili. L’istruzione parentale presenta un problema simile, perché coloro che istruiscono i figli a casa tendono a essere genitori abbienti e con alti livelli di istruzione (pag. 84).

Riguardo alla seconda, l’autrice chiarisce che, anche in caso di voucher universalmente concesso a tutte le famiglie, l’accesso alle scuole private d’élite è comunque precluso a chi ha meno capitale sociale (conoscenze specifiche riguardo al mondo dell’educazione) e possibilità di farsi carico dei costi connessi all’istruzione (per esempio, gli spostamenti necessari per raggiungere scuole situate in zone difficili da raggiungere).

Vi è poi l’aspetto relativo al condizionamento ideologico legato all’istruzione parentale e nelle scuole orientate in senso religioso o altro. Scrive ancora Cordelli: I figli non sono proprietà dei genitori. Hanno un interesse indipendente a diventare individui autonomi, con un’identità propria, capaci di scegliere per conto loro quali ideologie e credo sposare. (…) L’autonomia personale dei più giovani può essere minata invece che supportata da un sistema privatizzato che delega interamente o quasi l’autorità e la scelta educativa ai genitori (pagg. 88-89).

Scrive inoltre l’autrice: Resta il dubbio che gli enti privati che hanno una decisa connotazione religiosa o ideologica possano autenticamente rappresentare lo Stato e il pubblico nelle loro azioni e comunicazioni. Tali enti avranno un forte incentivo a infarcire i contenuti comunicati tramite il processo educativo con messaggi o lezioni morali di carattere pertinente al loro credo, nel qual caso l’ente parla in nome proprio e non dello Stato (pag. 95).

Pertanto, visto che il fatto che ricevano fondi pubblici può essere letto come un’autorizzazione da parte dello Stato ad agire o comunicare messaggi educativi nel suo stesso nome, (…) uno Stato democratico non dovrebbe dare finanziamenti pubblici alle scuole private, poiché esse non costituiscono alternative equivalenti alle scuole pubbliche (pagg. 95-97).

Analogamente, per le ragioni chiarite in precedenza, vi sono buone ragioni per proibire l’istruzione parentale, almeno durante gli anni della scuola dell’obbligo, fatti salvi casi legati alla salute o all’ubicazione dell’abitazione della famiglia (pag. 97).

Infine, poiché non vi può essere religione di Stato in una società liberaldemocratica, non vi è giustificazione possibile per privilegiare un certo tipo di scuole religiose invece di un altro (pag. 98).

La filantropia

Chiara Cordelli affronta nel libro, dedicandogli un notevole spazio, la questione della filantropia e della funzione delle ONLUS come sussidiarie dello Stato nella gestione del Welfare.

Scrive Cordelli: La filantropia, intesa come pratica ideologica e non come atto individuale, rischia di compromettere il carattere civile della società odierna (pag. 72).

Vediamo come l’autrice argomenta questa sua posizione, analizzando due aspetti del problema.

a) Il posizionamento reciproco dello Stato e degli enti non-profit

Un ente privato, a differenza di un ente pubblico, si trova a dover considerare e bilanciare identità, lealtà, religioni e obblighi contrastanti: da un lato, esso è chiamato ad agire, tramite un contratto di esternalizzazione, per conto dell’amministrazione pubblica e in nome del pubblico, dall’altro deve per forza di cose rispondere ai dettami della Chiesa o alle proprie esigenze associative, pur sempre private.

(…) Anche le associazioni volontaristiche non religiose e non a scopo di lucro spesso hanno finalità che, per quanto socialmente utili, sono interpretate dall’associazione stessa alla luce di concezioni del bene non propriamente pubbliche, ossia non universalmente condivisibili e non fondate su valori comuni, incluse concezioni filosofiche o esistenziali di beneficenza o carità. (…) I privati finiscono per agire in nome di se stessi, non del pubblico (pagg. 50-51).

La definizione dei diritti di una persona non può riflettere il giudizio meramente privato di un altro, così come il godimento sicuro dei diritti di ciascuno non può dipendere dalla buona volontà altrui (pag. 66).

Specularmente, lo Stato finisce per indirizzare ed educare i privati al raggiungimento di finalità pubbliche, attraverso incentivi economici e culturali e attraverso il controllo, tramite forme più o meno strette di regolamentazione delle attività associative, (…) trasformandole in agenti dello Stato. Infatti, le associazioni private, specialmente quelle senza scopo di lucro, dipendono in modo cruciale dalla disponibilità di finanziamenti pubblici (pag. 55).

Il nuovo modello di welfare state maschera, sotto forma di appello a una rinascita della società civile e ai valori di comunità, pluralismo e solidarietà, quella che invece dovrebbe essere vista come una continuazione del processo di privatizzazione del pubblico, cavallo di battaglia del neoliberismo negli ultimi quarant’anni (pag. 57).

Lo Stato dovrebbe mantenere la responsabilità di assicurare fondi sufficienti per assicurare il finanziamento dei servizi pubblici essenziali.

La società civile, a sua volta, dovrebbe occuparsi di mantenere che tale società sia vigile e buona, provvedendo non solo all’erogazione di beni di tipo discrezionale, quali l’arte e la ricreazione, ma anche all’erogazione di servizi sociali (non essenziali) che riflettano l’ampio pluralismo di valori e concezioni del bene dei cittadini (pag. 58).

b) La filantropia e i più ricchi: il ruolo dei grandi benefattori

Alcuni numeri. Tre quarti delle 260.000 fondazioni filantropiche del mondo sono state create negli ultimi vent’anni e tra di loro controllano più di 1.500 miliardi di dollari. (…) Negli Stati Uniti, ogni anno vengono donati circa 400 miliardi di dollari a cause di rilevanza sociale. I filantropi italiani donano circa 9 miliardi di euro l’anno (pagg. 59-60).

Le donazioni filantropiche non sono atti di puro altruismo, bensì transazioni parzialmente sussidiate dallo Stato. (…) Spesso questi incentivi sono strutturati in modo tale che ne beneficiano più i ricchi dei meno ricchi. Il sistema fiscale italiano non prevede limiti per le donazioni aziendali e prevede deduzioni generose per chi ha redditi maggiori di 30.000 euro.  Questi elementi sono, secondo Cordelli, una conferma del fatto che la generosità dei ricchi riceve sussidi molto più ingenti della generosità dei meno abbienti (pagg. 61-62).

Ci sia consentito qui aprire una breve parentesi a proposito del fatto che i ricchi appaiono spesso come generosi benefattori e i poveri no, così da giungere al paradosso per cui risultano generosi i ricchi, che hanno più denaro e sono in una posizione sociale vantaggiosa che permette loro di donare una minima parte del loro ingente patrimonio; mentre chi è povero, non potendo ovviamente fare donazioni consistenti, appare anche come egoista o comunque non finisce sotto i riflettori della bontà e della generosità. Condividiamo la chiosa di Cordelli: rimane il dubbio che spesso la filantropia sia usata dai super-ricchi come mezzo per occultare, legittimare e riprodurre l’esistenza di un sistema sociale a essi conveniente (pagg. 63-64).

Argomenta l’autrice: Più le democrazie tagliavano il finanziamento pubblico di beni e servizi importanti, (…) più i loro governi incoraggiavano pubblicamente le donazioni private come un modo alternativo di finanziare la loro produzione; ma i filantropi, in quanto privati indipendenti, possono agire solo in nome proprio e la loro forma di giudizio è necessariamente privata e unilaterale, indipendentemente dalla qualità delle loro intenzioni (pag. 67).

La filantropia contribuisce alla riproduzione della disuguaglianza, consentendola, legittimandola ed espandendola. (…) La disuguaglianza può risultare più accettabile, se coloro che ne beneficiano sono così generosamente disposti a redistribuire volontariamente parte della loro ricchezza alla società. Non è dunque un caso se il periodo dall’inizio del XXI secolo a oggi, che ha visto la massima espansione della filantropia a livello globale, ha coinciso con una crescita del patrimonio dei filantropi più facoltosi del 95% (pag. 70).

Commenta e conclude Cordelli: I super-ricchi del mondo sono spesso direttamente responsabili per la riproduzione di uno stato di ineguaglianza che è ingiusto (…) poiché usano i propri mezzi economici per esercitare influenza politica al fine di supportare politiche che perpetrano, invece di cambiare, tale stato di cose.

(…) I filantropi dovrebbero riconoscere pubblicamente la loro mancanza di legittimità e dovrebbero lavorare attivamente per rafforzare, piuttosto che indebolire, le istituzioni pubbliche. Dovrebbero riconoscere pubblicamente che la ricchezza che possiedono è il risultato di un sistema economico ingiusto e bisognoso di riforme e quindi che essi non hanno pieno diritto a gran parte della ricchezza che possiedono poiché, se la società in cui vivono fosse giusta, essi in primo luogo non avrebbero potuto accumulare tali livelli di ricchezza.

La ricchezza non scende dal cielo, bensì deriva da un sistema economico e legale, accuratamente creato e strategicamente sostenuto, che permette ad alcuni di guadagnare e accumulare enormi ricchezze, mentre lascia altri in condizioni di indigenza. I grandi benefattori di oggi hanno l’obbligo morale di riconoscere pubblicamente questo fatto e di supportare dovute riforme, per esempio chiedendo ai loro governi di aumentare le tasse sulla ricchezza e di rafforzare i regolamenti contro la fuga di capitali e i paradisi fiscali (pagg. 74 76).

Un altro modo di fornire i servizi pubblici e il ruolo della burocrazia

Nel capitolo conclusivo, Cordelli affronta la questione del funzionamento dell’amministrazione pubblica: Non si può limitare il processo di privatizzazione in nome della democrazia, senza allo stesso tempo immaginare un sistema che sia esso stesso più democratico (pagg. 104-105).

Mette l’accento sulla dimensione etica dei funzionari pubblici e sulla necessità di separare in modo chiaro e definito non solo gli interessi, ma anche le appartenenze politiche, ideologiche, religiose e filosofiche dei funzionari pubblici: A differenza dei cittadini, i funzionari pubblici hanno il dovere di silenziare completamente considerazioni di tipo privatistico o comunque non pubblico (pag. 109).

D’altro canto, è necessario che i funzionari pubblici siano in possesso di adeguate competenze tecnico-scientifiche che permettano loro di assolvere al meglio i loro compiti, nell’esclusivo interesse della collettività.

Infine, Cordelli auspica una partecipazione sempre più ampia e sempre più consapevole da parte dei cittadini alla gestione delle istituzioni pubbliche, sia fornendo gli strumenti per comprendere le ragioni delle scelte, sia coinvolgendo sempre più persone nei processi decisionali.

In conclusione, possiamo prendere il testo di Chiara Cordelli come un grido di allarme nei confronti di una deriva sempre più netta delle democrazie verso plutocrazie nelle quali anche la gestione dei servizi sociali finisce per rispondere a logiche di mercato, con il progressivo arricchimento di pochi e la diminuzione sensibile della protezione sociale per la maggior parte della popolazione.

Porre un freno a questa deriva, come sempre, è un compito che spetta a ciascuno di noi, senza aspettarci che la soluzione arrivi da una classe politica, al momento incapace di proporre alternative credibili, come del resto dimostrato dalla crescente disaffezione nei confronti delle scadenze elettorali.

La soluzione è al contrario fortemente politica, ma nel senso, indicato anche da Chiara Cordelli, di partecipazione diretta e di affermazione dei diritti, senza cedere al pessimismo e alla rassegnazione. Il futuro è nelle nostre mani, nonostante quanto viene sempre più spesso affermato.

Quindi, prima di vedere colonizzati e privatizzati anche i nostri pensieri, abituiamoci ad alzare la voce per difendere i diritti che abbiamo conquistato dall’intromissione della legge del profitto anche negli aspetti più delicati e preziosi delle nostre esistenze.

                       

Luca

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